Pesce-cane
Un’altra alba rompe, con lividi preamboli, il flusso inarrestabile di emozioni che agita il mio petto addormentato. Immagina la costernazione nell’accorgermi che la pressione avvertita sul torace non è effetto del tuo corpo sul mio, bensì la suggestione fugace indotta dal sonno e dall’abitudine. Il braccio con il quale solevo cingerti la vita non incontra altra resistenza oltre quella delle lenzuola. La disillusione è forse la sveglia più dolorosa, ma al contempo la più efficace, dai sogni effimeri della notte. Resto a letto per alcuni minuti, tramortito dal brusco risveglio nella solitaria realtà che mi circonda. Da dietro la finestra osservo il brillare di Venere nel firmamento del primo mattino, ove le nuvole, ormai scariche della pioggia della notte scorsa, trattengono ancora le ombre nere della notte, mentre squarci di sereno rispecchiano già i primi raggi dell’astro nascente, acquattato dietro qualche tetto a oriente. Traggo auspici favorevoli per una nuova giornata d’attività fisica sentendo un’altra volta emergere, dal fondo del mio spirito, quell’energia irrefrenabile che, destandosi di concerto con le prime luci dell’alba, richiede sfogo immediato. […]
Il porto è tutto un luccichio di lanterne. Grossi riflettori illuminano il lavoro di carico e scarico dei marinai, le acque gonfie e salse che, entrando nell’imbuto del fiume, perdono l’antico vigore e fanno danzare, in un beccheggio regolare, le chiglie dei pescherecci alla fonda. Le imbarcazioni, data l’ora, s’accingono a mollare o ad assicurare gli ormeggi. Scalpitano per le speranze della giornata di pesca che sta per iniziare o per la resa di quella appena finita. L’aria è quanto mai pungente e greve dell’aspro odore di salsedine che il mare sbuffa sui volti spigolosi e scuri degli uomini che lo sopravvivono quotidianamente, e sul mio, contratto dalla corsa e dalla brama di ridurne l’essere forte e spietato. […] Un chiarore vermiglio si diffonde da dietro la linea netta dell’orizzonte propagandosi per il cielo ancora macchiato qua e là dai drappi neri delle nuvole che, sgravatesi nottetempo della pioggia, si fanno testé tutrici dell’oscurità della notte. I bagliori del primo timido sole inondano di luce sovrannaturale la superficie cesellata del mare e i tetti fradici di pioggia della città ancora avvolta nel sonno: fugace visione retrospettiva. Continuo la mia corsa per il lungo molo di cemento che si protende, che mi protende, sull’ignoto. Una prora gagliarda scompone il riflesso della mia figura slanciata sulle acque. Il faro, verso il quale inevitabilmente dirigiamo, comincia a segnalare in una lingua a me sconosciuta. I due destrieri avanzano appaiati, poi il traguardo: la conica e cava struttura di cemento armato, dominio della luce. Mentre io arresto la corsa sull’orlo dell’ultima estensione umana sull’abisso, il peschereccio mi sorpassa borbottando il proprio muggito di sfida all’elemento in cui s’è appena lanciato, dipartendosi dall’ombra scura che lo saluta dalla banchina e gli augura la buona navigazione. Osservo la “ciabatta” perdersi nell’orizzonte rutilante che ha oltrepassato, vellicare l’ugola del sole tremolante allo sbadiglio leonino del mattino e ridursi, ai miei occhi, in un puntino insignificante nell’immensità. […]
Le dune di sabbia spazzate dal vento, lo stormire graffiante dei cespugli, unica flora, il moto implacabile delle onde plumbee che strappano a brani i sedimenti con il proprio ruggito feroce: questo è il deserto arenile che l’uomo affronta schivando gli spruzzi di spuma che la fiera solleva dal suo pasto infinito, calpestando le spoglie di pesci e molluschi consegnate alla riva, prede dell’oblio dell’essere e dell’opportunismo dei gabbiani. I pennuti si levano in volo per sgomberare la pista alla mia avanzata. Producono, con lo stormire delle remiganti nell’aria ostile, il rumore d’un gagliardetto strapazzato dal vento. Perché subisco il fascino di questo paesaggio inospitale? Forse perché riconosco la desolazione che mi circonda in quella che mi devasta l’animo. Mi fermo a contemplare il travaglio delle onde sedendomi a gambe incrociate su uno scoglio arenato. I gabbiani tornano a disputarsi i resti che il mare ha imbandito per loro sul bagnasciuga. Emettono alte strida da commensali ingordi che mi riecheggiano nelle orecchie e si confondono con lo sferzare del vento che le porta. Travalico con la fantasia la linea dell’orizzonte che, man mano che il sole si alza, si fa sempre più indistinta, laddove il mare ha lo stesso colore del cielo e la medesima gravità. Lontano, da qualche parte sull’Adriatico, il peschereccio testimonierà a breve la presenza dell’uomo anche su quelle acque agitate, depredandole delle creature che le popolano. L’emanazione del pesce pervade qualunque recesso dei moli, il porto e i mercati retrostanti, aleggiando nelle mie narici assorte a fiutare gli umori del mare. Non sono ancora pronto a rituffarmi nella civiltà. Preferisco accettare l’invito dell’onda. Galleggio sulla superficie irrequieta, sballottato dalla corrente come un cencio non ancora completamente inzuppato prima d’affondare. Sento dappertutto, sulla pelle, la carezza incessante del mare fatta di flussi e deflussi continui, di urla e mormorii, acuti e sospiri. Odo l’incessante sciabordio delle sue frange impertinenti insinuarsi tra gli scogli, far tintinnare la ghiaia e i ciottoli sedimentati sul fondo dalla secolare erosione dei fiumi. I sassi sfiorano i lombi dilavati, rendendomi lo stesso omaggio che una foca m’avrebbe elargito con il tocco delicato del muso. L’acqua, le pietre, le brezze assurgono a forme viventi e, come tali, convivono nell’immenso scenario del mare. Lo stato liquido mi stringe in un gelida morsa che riattiva le congeniali funzioni della circolazione sanguigna. Il sole gioca ad accecarmi rifrangendosi sullo specchio incantevole in una pioggia dorata. Girando le spalle all’oriente, riesco finalmente a penetrare con lo sguardo la superficie marina intorno a me. Scorgo il nuoto leggiadro d’un esiguo banco di alici. Le scaglie argentate dei piccoli pesci riverberano la luce che le colpisce in una miriade di scintille impazzite che si enfiano e poi ricompongono aggirando il moto sospetto dei miei piedi, come quelle d’una fiamma crepitante su ceppi accesi le quali, volando verso il cielo all’imbrunire, vengono disperse a mezz’aria da un’improvvisa folata di vento, per convergere nuovamente nella deriva della loro ascesa collettiva.
Dopo un paio di robuste bracciate, torno a nuotare in direzione dello scoglio sul quale ho ammucchiato i vestiti. Posso distinguere perfettamente gli orli frusti della tuta scolorita e il tacito consenso delle scarpe da ginnastica dalla punta all’insù che mi sorridono indulgenti dalla scanalatura delle suole. La temperatura corporea s’è ormai completamente assuefatta alla rigidità dell’acqua che defluisce dalle curve nodose delle braccia e del dorso lambendomi dolcemente la pelle con un bacio prolungato, allorché ne esco. Mai come ora ho sentito le mie fibre traspirare altrettanto pienamente, ancorché il sale mi pizzichi l’epidermide rapprendendo al vento. Dopo aver indossato i vestiti e infilato nuovamente le scarpe, mi sollevo da terra e riprendo la corsa. Torno verso il porto e la civiltà dalla quale troppo più spesso cerco esilio per percepirne ovunque la palpabile presenza. Basta osservare la moltitudine di oggetti di plastica che il mare restituisce al mittente insieme con i suoi detriti per avere un’idea dello scempio irriverente che l’umanità ogni giorno perpetra sulle acque del globo. Colli di bottiglia spuntano tra le dune insieme alle siringhe, monito per le persone che già intravedo avvicinarsi alla riva con i cani al guinzaglio: uomini e donne amanti degli animali che riservano quotidianamente le prime ore del mattino alla ricreazione delle proprie bestie, affinché queste si sgravino dei bisogni trattenuti durante la notte e godano di un’oretta di libertà dal guinzaglio e dalle altre restrizioni imposte dalla vita urbana. Splendidi setter irlandesi, pointer e pastori tedeschi sfrecciano sollevando la sabbia con le zampe frenetiche. Azzannano il pezzo di legno lanciato dal padrone con la destrezza propria dei loro antenati selvatici. Nel proseguire la corsa fuori dal porto, scorgo ormai indistintamente il balenare delle schiene forti e arcuate. Mi inseguono negli orecchi i latrati di trepidazione con cui i cani sollecitano il padrone a lanciare il bastone un’altra volta e più lontano. Poi il mio udito è nuovamente saturato dallo scalpiccio ritmico dei miei piedi sull’asfalto, dal pulsare del cuore, dal pompare del sangue nelle vene, dall’espansione e contrazione dei polmoni. Trasalendo all’assordante strombazzare dei clacson, ai fischi dei vigili, alle voci umane e volgari che si levano da dietro i banconi del mercato ittico, prendo coscienza di trovarmi nuovamente irretito nelle frenetiche attività umane che sembrano non conoscere tregua, non ammettere soste. Ai miei sensi, pervasi dalla breve conoscenza dell’eternità che il mare mi ha bisbigliato alcuni istanti fa, la perentoria manifestazione di civiltà suona come una bestemmia. […]
Note
“Circolo culturale il Castello”, Ortucchio (AQ), Pesce-cane, segnalato all’edizione 2005 del Premio Internazionale “Caro Diario”